L’arte
sacra dell’Etiopia in una grande mostra italiana
I cavalieri africani di Cristo
Immagini di una realtà sconosciuta: il cristianesimo africano
delle origini attraverso le leggende dei santi della Chiesa abissina.
Sono
martiri cristiani con i capelli crespi e la pelle nera. Sono l’espressione
della santità africana e guerriera, cavalieri scalzi che tengono
la staffa fra l’alluce e le altre dita dei piedi, secondo tradizione.
Sono l’anima profonda dell’Etiopia, custode fedele della
Rivelazione nel Continente nero. San Giorgio, San Teodoro, San Mercurio,
San Claudio, San Vittore, San Marmehnam. Nomi conosciuti e figure
misteriose, fra verità storica, misticismo, leggenda popolare.
Per ogni giorno, una vita, una testimonianza, fissata nel libro liturgico
della chiesa etiope (il Sinassario), secondo uno strano calendario
che è rimasto indietro di sette anni (in Etiopia siamo oggi
nel 1990) e che conta i mesi a partire da settembre.
Perfino le ore del giorno si contano in modo diverso, da zero a dodici,
dall’alba al tramonto, secondo un costume che fu degli ebrei.
Non c’è da stupirsi, presso un popolo che fa partire
la propria storia dalla Regina di Saba e da Re Salomone (di cui gli
imperatori abissini si consideravano diretti discendenti.), che custodisce
l’Arca dell’Alleanza (sì, proprio quella di Mosè
e Indiana Jones) ad Axum, che va in pellegrinaggio ogni anno in un
santuario costruito dagli angeli nella roccia (Lalibelà). Un
popolo umiliato dalla modernità (l’Etiopia è considerata
l’ultima nazione al mondo per sviluppo economico), ma vicino
come pochi altri alle sue origini, orgoglioso di una indipendenza
che nessuno è riuscito a cancellare (a parte la breve parentesi
del colonialismo italiano) nel corso dei secoli.
Per questo i santi venerati dalla chiesa etiope sono santi guerrieri.
Perché la religione è stata sempre difesa con la spada,
pagata col sangue. A partire da Ezana, re di Axum, che si convertì
al cristianesimo per opera di due siriani, Frumentio e Edesio, nel
quarto secolo dopo Cristo. Il legame con l’Oriente è
uno dei due segni distintivi della chiesa etiope, e ritorna in molte
delle storie dei santi (che provengono dalla Siria, dalla Cappadocia,
dall’Egitto, dalla Palestina). L’altro è l’unione
con l’impero abissino. “Governerò il mio popolo
con correttezza e giustizia, senza opprimere nessuno; che il popolo
possa preservare il trono che ho edificato per il Signore del Cielo”:
Ezana fa del cristianesimo la religione di stato, proprio come l’amico
Costantino (che in un carteggio lo chiama “mio prezioso fratello”)
a Roma.
La sfida di quei secoli è la sfida contro il paganesimo. E’
una lotta feroce, il Bene contro il Male, che ritorna in quasi tutte
le storie dei santi ed è rappresentata nell’iconografia
tradizionale.
I santi sono spesso condottieri al servizio di un imperatore, o cavalieri
che operano miracoli o compiono grandi imprese (come San Giorgio,
che libera la città di Lasia dal drago). I segni della loro
grandezza sono però quasi sempre misconosciuti dal Potere,
che vuole continuare il culto degli idoli. La professione di fede
del santo, il rifiuto sprezzante di abiurare il nome di Gesù
Cristo in cambio di grandi ricompense o la condanna dell’idolatria
dell’imperatore di turno (in molti casi si tratta di Diocleziano),
comporta, inevitabilmente il martirio.
E’ impressionante l’insistenza sulle torture inflitte
ai santi. “Il governatore ordinò a un fabbro di fabbricare
strumenti orribili (...): due rasoi, uno strumento per maciullare
la testa, uno per torcere il collo, uno per estrarre i denti, uno
per cavare gli occhi, uno per forare le narici, uno per dilaniare
le membra; (...) delle seghe, una stufa, una caldaia, una ruota di
carro, una gogna e un uncino di acciaio per cercare cosa c’è
nel ventre”: è l’elenco dettagliato predisposto
per la tortura di San Quirico, il martire fanciullo. Ai seguaci dei
santi non è riservata miglior sorte: le stragi vengono contabilizzate
con precisione (3.008 uccisi insieme a San Teodoro; 4.090 con San
Sisinnio). Ma l’elemento corporeo, per quanto descritto con
realismo, è sempre subordinato allo spirito, la natura divina
si sovrappone a quella umana, il dolore e la morte vengono subito
riscattati (San Giorgio resuscita addirittura tre volte). Nell’affascinante
ingenuità delle storie dei santi sembra emergere la dottrina
monofisita (che nega la natura umana di Gesù) della chiesa
etiope. Una chiesa difesa dall’impero contro i nemici esterni,
votata all’isolamento totale, proprio nel momento in cui (XVI-XVII
secolo) il cattolicesimo si espande nel mondo, contrastato dall’Islam.
Così, anche se il negus Fasilidas accetta l’aiuto militare
dei portoghesi contro i Turchi, non si ammettono le influenze sempre
più pressanti dei gesuiti e degli altri missionari (per lo
più spagnoli), che vengono cacciati nel 1634. Nel frattempo,
il centro dell’impero si è spostato a Gondar, maestosa
città fortificata sugli altopiani del Gojjam. Gondar rimane
il centro nevralgico dell’Etiopia fino alla fondazione di Addis
Abeba (“il nuovo fiore”) nel 1889 ad opera del leggendario
Menelik, il vincitore della battaglia di Adua.
A Gondar si sviluppa una forma nuova di arte sacra, anche se i criteri
dell’iconografia rimangono molto rigidi, proprio come per le
Chiese cristiane ortodosse. Le rappresentazioni delle vite dei santi
nascono nei numerosi monasteri sparsi per tutto il territorio abissino
e si sviluppano soprattutto a partire dal XIII secolo. Le variazioni
stilistiche, che fanno parlare gli esperti di “primo e secondo
periodo di Gondar” appaiono secondarie, ma sono in realtà
importanti: se i temi cambiano leggermente (i santi vengono rappresentati
prima come cavalieri di Cristo, con la lancia rivolta in alto; successivamente
come eroi nell’atto di sconfiggeri nemici o bestie feroci),
l’abbigliamento tende invece a trasformarsi molto, seguendo
fedelmente la moda dei nobili abissini.
E’ al secondo periodo di Gondar che si ispira l’opera
di “prete” (Ques) Adamu, forse l’ultimo grande autore
contemporaneo di icone etiopi.
Adamu nasce nel 1922 in un piccolo villaggio del Gojjam. Suo padre
era un prete che aveva viaggiato a Roma e a Gerusalemme. Il senso
religioso viene trasmesso al giovane Adamu, che diventa a sua volta
prete e serve la Chiesa Etiope Ortodossa per 34 anni. Quindi abbandona
il culto per dedicarsi esclusivamente alla pittura e alla famiglia
(ha sette figli). La sua opera parla di un mondo che non si arrende
alla modernità: la Tradizione è continuata e rafforzata,
il tema che traspare quasi ossessivamente è quello dell’Etiopia
(che diventa tutt’uno con la cristianità) circondata
dai nemici, ma regolarmente salvata dai santi a cavallo, perché
il Bene trionfa sempre sul Male.
Nonostante la fine dell’impero, i 17 anni di dittatura marxista,
l’avanzata possente degli islamici, il cuore dell’Etiopia
continua a battere nei suoi oscuri monasteri, nelle interminabili
litanie pronunciate dentro le sue chiese, nelle immagini incorruttibili
dei suoi guerrieri cristiani.
Cesare Sangalli