Calcio
e globalizzazione nella patria di Galeano
L’Uruguay e la “tattica uno”
Come resistere alla modernità e vivere (quasi) felici.
Prigioniero del passato, nel bene (lo stato sociale più antico
del continente ha resistito all’ondata neoliberista) e nel male
(le ferite della dittatura non sono cicatrizzate), l’Uruguay
sembra fermo alla mitica vittoria mondiale del ’50 contro il
Brasile.
Erano
rimasti in tre. “Io, Miguez e Ghiggia”, ha detto Roque
Gaston Maspoli, in una delle sue ultime interviste prima di morire,
il 24 febbraio scorso. Maspoli, classe 1917, era il grande portiere
della leggendaria squadra del Maracanà, quella che davvero
fece piangere il Brasile. L’Uruguay campione del mondo per la
seconda volta, a metà del secolo scorso. Un paese che oggi
non arriva a quattro milioni di abitanti, concentrati in buona parte
a Montevideo, grande come mezza Italia e quindi praticamente disabitato
all’interno, era di nuovo il numero uno del pianeta football.
Un miracolo? Indubbiamente, ma un miracolo della normalità.
“Conoscevamo bene i nostri avversari, li avevamo già
incontrati e battuti un paio di mesi prima nella Coppa Rio Branco”,
ricordava con molta semplicità Maspoli, anti-personaggio per
eccellenza, come praticamente tutti in quella squadra. Viveva con
la moglie in un dignitoso appartamento a Montevideo. Non si lamentava
di niente e di nessuno, ma si sa che un po’ di tempo fa aveva
messo all’asta tutti i suoi cimeli per raggranellare un po’
di soldi. L’Uruguay ha subito la violenta crisi economica che
ha messo in ginocchio la vicina Argentina, disponendo di risorse molto
più limitate. Ha retto però molto meglio dell’Argentina
(nonostante un’inflazione al 45 per cento, una diminuzione del
PIL del 10 per cento, la disoccupazione oltre il 20 per cento) soprattutto
perché l’Uruguay si fida solo del suo passato. E il suo
passato, appunto è il miracolo della normalità, come
la vittoria dei mondiali del 1950, che era in fin dei conti la quarta
affermazione a livello mondiale (oltre al titolo del 1930 c’erano
state anche le medaglie d’oro olimpiche del 1924 e del 1928).
Il fatto è che calcio e modernità vanno di pari passo,
nella Repùblica oriental (un nome, un destino: l’Uruguay
sembra tutto rivolto verso est, attratto unicamente dall’Europa).
Ai primi del Novecento, il paese era davvero all’avanguardia:
il presidente Jorge Batlle aveva varato durante il suo primo mandato
(1903 – 1907) il primo stato sociale del continente.
Orario lavorativo di otto ore, sussidio di disoccupazione, finanziamenti
all’agricoltura, sistema pensionistico per tutti i lavoratori,
sanità pubblica e soprattutto scuola obbligatoria, gratuita
e non confessionale. Porte aperte agli immigrati, con una forte politica
di integrazione finanziata dallo stato. Il miracolo della normalità.
In questo contesto, il calcio, simbolo della modernità che
parlava solo e sempre inglese, diventa patrimonio sudamericano prima
ancora che europeo. Con il britannico football, “lavoratori
espulsi dalle campagne si intendevano alla perfezione con i lavoratori
espulsi dall’Europa. L’esperanto del pallone univa i poveri
del posto con i braccianti che avevano attraversato il mare da Vigo,
Lisbona, Napoli…” (Eduardo Galeano, “El fùtbol
a sol y sombra”).
L’Uruguay della prima metà del Novecento sembrava in
anticipo su tutto, anche sul razzismo. Galeano ricorda con sarcasmo
le proteste della delegazione cilena, dopo che l’Uruguay aveva
battuto il Cile quattro a zero nel corso del primo campionato sudamericano
(1916), perché la nazionale celeste “aveva schierato
due giocatori africani”, i neri Isabelino Gradin e Juan Delgado,
che erano già due idoli del calcio rioplatense. Perfino il
Brasile all’epoca non schierava giocatori di colore.
Che il calcio aveva cambiato padrone se ne accorsero gli europei alle
olimpiadi di Parigi (1924) e Amsterdam (1928): cronisti e spettatori
rimasero ammirati da quel manipolo di proletari (presto sarebbero
diventati professionisti) che giocavano con la palla a terra un calcio
tutto tecnica e fantasia, trascinati dal grande Andrade, “la
meraviglia nera”. “Ora non siamo più un piccolo
punto nella mappa del mondo”, commentò un dirigente uruguayano.
Due anni dopo, a Montevideo si giocò la prima Coppa del mondo,
nel nuovo stadio “Centenario”, che è ancora oggi
il tempio del calcio uruguagio, teatro del derby (che qui giustamente
si chiama “clasico”) fra Penarol e Nacional e recentemente
qualificato come “patrimonio dell’umanità”
da parte dell’Unesco. L’Uruguay vinse con l’Argentina,
proprio come nella finale olimpica: il miglior calcio del mondo si
giocava all’epoca fra Buenos Aires e Montevideo, a ritmo di
tango e rivalità (ancora oggi si discute se Carlos Gardel fosse
argentino o uruguayano).
Vent’anni dopo l’Uruguay era al punto massimo del suo
sviluppo. I paesi sudamericani non avevano vissuto il disastro della
seconda guerra mondiale, e stavano godendo i vantaggi della loro neutralità.
Ma mentre Argentina e Brasile vivevano la stagione populista dei Getulio
Vargas e dei Peròn, l’Uruguay, democrazia matura, aveva
ancora la presidenza della repubblica collegiale. Fu un paese della
middle class a godere della inaspettata vittoria sul Brasile, che
si preparava ad un gigantesco carnevale fuori stagione (la partita
si disputò il 16 luglio, e venne definita, dopo la sconfitta,
“la peggior tragedia della storia del Brasile”). Non c’è
mai stata una finale mondiale con tanta gente sugli spalti: almeno
150mila persone stipavano il Maracanà quel giorno, tutto era
pronto per la grande festa. Quando il Brasile, all’inizio del
secondo tempo, passò in vantaggio, “tutta Rio de Janeiro
fu un’esplosione di giubilo; i petardi e i fuochi di artificio
si accesero nello stesso tempo” (Osvaldo Soriano, “Fùtbol”).
In quel momento, è il capitano dell’Uruguay, lo statuario
Obdulio Varela, colonna della difesa e del centrocampo, a prendere
per mano i suoi compagni, ritardando platealmente la ripresa del gioco.
Capisce che deve far calmare gli animi e capisce anche che il Brasile
ha paura di vincere. La nazionale celeste gioca decisamente meglio,
ribattendo colpo su colpo, finché arrivano i gol di Schiaffino
e Ghiggia ad ammutolire il Maracanà e un’ intera nazione.
“La gente non riusciva a credere che il colosso fosse morto
a casa sua, spogliato di gloria”, scrive ancora Soriano. La
compostezza dei giocatori uruguayani fu tale che alla fine gli stessi
brasiliani in lacrime offrirono da bere nei locali di Rio. Obdulio
Varela dichiarerà a Soriano il suo dispiacere per quella meritatissima
vittoria. I giocatori uruguayani non otterranno nessun premio favoloso,
non diventeranno eroi nazionali, non faranno sciocchezze da primedonne,
non faranno mai versare molto inchiostro. Il miracolo della normalità.
Il più celebre di tutti, per la sua carriera al Milan, Juan
Albertp Schiaffino, è rimasto fino alla fine un signore distinto
e di poche parole, che dedicava più tempo alla pesca che al
calcio. Il suo nome sta su una targa al pantheon degli eroi sportivi
dell’Uruguay.
“Abbiamo sempre preferito celebrare quella vittoria per conto
nostro”, dice Maspoli, “ a volte insieme ai giocatori
brasiliani di allora”.
L’Uruguay assomiglia ai suoi vecchi giocatori: semplice, quasi
dimesso, per niente attratto dalle sirene della modernità che
si chiama globalizzazione, estremamente dignitoso ma sempre con un
fondo di malinconia o di tristezza. La grandezza degli anni Cinquanta
si è andata spengendo lentamente. L’ultima volta che
il paese è stato all’avanguardia, è stata una
tragedia. Perché l’avanguardia era una stella a cinque
punte con una “T” al centro, primo esempio di guerriglia
urbana in un paese occidentale: i Tupamaros furono i cattivi maestri
di un’intera generazione di “rivoluzionari”, anticipando
di un po’ di anni le varie Brigate Rosse, la Raf tedesca e molti
altri gruppi che si richiamarono, anche esplicitamente, ai colleghi
dell’Uruguay. A nulla valse il monito di Ernesto “Che”
Guevara, in visita all’università di Montevideo nel ’61:
“questo paese non ha bisogno di rivoluzioni, perché ci
sono già tutte le condizioni per raggiungere ogni tipo di obiettivo”,
disse in sostanza l’icona vivente dei guerriglieri.
I Tupamaros erano espressione della media borghesia, in molti casi
persone perfettamente integrate che conducevano una doppia vita, tutti
molto giovani. All’inizio colpirono alla Robin Hood, svaligiando
i simboli del capitalismo per dare ai poveri. Colpi audaci e geniali,
senza spargimento di sangue. Poi vennero i rapimenti per ottenere
riscatti, e infine i tribunali del popolo, i giudizi sommari, le uccisioni
sempre più indiscriminate. La democrazia uruguayana non resse
all’urto repressivo dei militari guidati da Washington, che
prima distrussero i Tupamaros, poi si incaricarono di gestire direttamente
il potere che si stavano prendendo progressivamente, con un colpo
di stato incruento (giugno 1973). La notte della dittatura militare
oscurò anche il calcio, come una maledizione: la nazionale
uruguayana visse uno dei periodi peggiori, non qualificandosi né
al mondiale in Argentina del 1978 (quello gestito vergognosamente
dai colonnelli), né a quello spagnolo del 1982 (forse l’ultima
vera gioia italiana prima dell’era di Berlusconi).
L’uscita dalla dittatura (1984-85) non fu molto onorevole. I
militari, assolutamente incapaci di gestire il paese, patteggiarono
un’amnistia con le forze politiche che venne poi ratificata
in un referendum popolare. Il passato, evocato qui sempre con legittimo
orgoglio, aveva la sua zona oscura, che ancora oggi chiede giustizia
(vedi “Diario” n.30/31). A ricordare i trent’anni
del golpe c’era una stanca partitocrazia, malata anch’essa
di storia, visto che blancos e colorados, conservatori e liberali,
si fronteggiano dai tempi di Garibaldi, e l’attuale presidente,
Jorge Batlle, è discendente dell’omonimo creatore dell’Uruguay
moderno. I vecchi avversari restano aggrappati al potere in un malinconico
abbraccio consociativo, volto ad escludere la sinistra del “Frente
Amplio”, che ha integrato gli ex tupamaros e rappresenta la
maggioranza relativa nel paese.
Qui la politica ha ancora i toni e i contenuti che in Italia sono
stati dimenticati da oltre vent’anni. Qui si discute ancora
se fare o no le privatizzazioni, perché il settore del pubblico
impiego è eccessivo, come la presenza dello stato nell’economia.
Sembra che i “Chicago boys” e l’ubriacatura liberista
si siano fermati sull’altra sponda del Rio de la Plata. L’americanizzazione
demenziale, che ha finito per contagiare perfino la “vecchia”
Europa, è stata dribblata a ritmo di tango. L’Uruguay
è rimasto umanista fino al midollo, con la sua scuola pubblica
obbligatoria fino all’istruzione superiore, con la sua grande
percentuale di laureati, con le sue librerie e i suoi teatri. Tutto
splendidamente “demodé”, o malinconicamente sorpassato,
secondo i punti di vista.
Un atteggiamento difensivo che è anche un modello di gioco,
visto che tradizionalmente gli uruguagi sono i giocatori più
“catenacciari” del Sudamerica , e forse il fatto che quasi
il 40 per cento della popolazione è di origine italiana ha
la sua influenza. Come gli italiani di una volta, gli uruguayani si
esaltano giocando in difesa: è la “famosa tattica uno”,
diceva uno studente di matematica, “de aquì no se pasa
ni vivos ni muertos”.
Forse l’Uruguay è troppo povero per essere bello. Forse
lo stile non riesce a nascondere l’arretratezza economica, la
mancanza di soldi, proprio come il vecchio repertorio retorico non
può nascondere la corruzione e l’assenza di ricambio
dei vertici. Ma se l’alternativa era quella dell’Argentina
di Menem o del Perù di Fujimori, viva il sano conservatorismo
uruguagio.
Anche il calcio soffre della cronica mancanza di soldi. I migliori
talenti se ne vanno all’estero, e quando tornano sono come alieni.
Qui il paese si ferma quando gioca la nazionale, è un amore
ancora incontaminato, non involgarito dai miliardi dei mercanti che
hanno occupato il tempio e lo stanno trasformando in un (brutto) circo.
La romantica inadeguatezza dell’Uruguay finisce sempre con un
sospiro di rimpianto. Come entrare in un sabato freddo e piovigginoso
allo stadio Centenario per l’ultima partita del Nacional nel
girone di andata, contro una squadra di provincia, il Villareal. Nonostante
il vento che soffia dall’Atlantico, c’è abbastanza
gente. Tutti con le borsine della spesa in mano: oggi non si paga
il biglietto, basta presentarsi con un po’di generi alimentari
che verranno distribuiti ai poveri. Il calcio incantato dei poeti
sudamericani appare sempre più “triste, solitario y final”.
Cesare Sangalli