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(pubblicato su “Galatea”, giugno 2008)

Quando il tempo restituisce il vero valore di un leader
Jimmy Carter, presidente e gentiluomo

 

Visto dal vivo, dimostra molto meno dei suoi prossimi 84 anni. Ma questo è davvero il minimo che si può dire di James Earl Carter, detto Jimmy, che fu il 39° presidente degli Stati Uniti, e oggi è un distinto signore che giganteggia forte e sereno in mezzo ai nani e ai tromboni della diplomazia internazionale. Nella sala stampa del Soaltee Crowne Plaza di Kathmandu, Carter risponde con calma anche a domande apertamente polemiche (molti giornalisti, nepalesi e non, sembrano non accettare la vittoria dei maoisti) o a domande trabocchetto (vorrebbero metterlo in imbarazzo rispetto alla politica estera che Washington sta portando avanti). Difende la correttezza delle elezioni, sottolinea l’enorme passo avanti fatto dal popolo nepalese, ricorda a tanti giornalisti distratti che le violenze politiche prima del voto hanno colpito soprattutto i maoisti, rovesciando il luogo comune che li dipinge a tutti i costi come i cattivi della storia (oltre che classificati da anni come terroristi). Con una serie di argomenti chiari, diretti, basati sui fatti, Carter fa emergere quella che è forse la sua caratteristica migliore: una profonda onestà. Onestà personale, da uomo lontano mille miglia dalle sirene della corruzione, e onestà intellettuale, che oggi più che mai gli procura critiche feroci. In una agenda politica internazionale avvelenata dalle menzogne, dalla propaganda, da un conformismo imperante che impone addirittura un linguaggio e quindi una struttura mentale, Carter scandalizza con la sua sincerità molti analisti, gli stessi che continuano ad accettare senza battere ciglio dichiarazioni deliranti come quelle su un’ eventuale guerra all’Iran (che anche una come Hillary Clinton ha tirato fuori per far vedere agli americani di che pasta è fatta).
Il popolo degli Stati Uniti a quanto pare ha ritirato la fiducia a Bush, il guerrafondaio, e si è stancato delle menzogne di regime. Ora molti chiedono un cambiamento radicale, anche perché la crisi economica comincia a farsi sentire di brutto. E’ una situazione in parte simile a quella da cui scaturì la sorprendente vittoria di Carter alle presidenziali del 1976. Sorprendente perché Carter era praticamente sconosciuto, la sua elezione aveva qualcosa dei film di Frank Capra, tipo “Mister Smith va a Washington”. E’ chiaro che il non essere associato ai vecchi politicanti come Nixon, travolto dallo scandalo Watergate due anni prima, era in quel momento la carta vincente: gli americani erano stanchi di bugie, le ferite della sporca guerra del Vietnam bruciavano ancora, era arrivato il momento di rifarsi una verginità, e Jimmy Carter era un uomo al di sopra di ogni sospetto: un bravo ragazzo del sud, un po’ bigotto, un “country boy” legato alla terra e alla famiglia, talmente solida che non aveva bisogno di immagini pubblicitarie. Carter era il primo di quattro figli di un grosso “farmer” della Georgia. Sposato a 22 anni, al momento della candidatura aveva già trent’anni di matrimonio alle spalle e quattro figli. Un tipo quasi noioso, il buon Jimmy. Aveva cominciato tardi a fare politica, negli anni Sessanta, e solo a livello locale. Nel 1971 era diventato governatore della sua Georgia, e il suo curriculum politico finiva lì. La sua biografia personale parlava di un giovane di ottimi studi, laureato in fisica, che aveva cercato il futuro all’Accademia navale e quindi nella Marina militare, per poi tornare ai suoi campi di noccioline alla morte del padre. Una scelta da buon primogenito, da capofamiglia responsabile. Sicuramente bravo, ma assolutamente ordinario. Per questo l’aneddotica vuole che la moglie Rosalyn, all’annuncio della sua intenzione di candidarsi a presidente, avrebbe risposto: “Presidente di cosa?”.
Rosalyn Carter oggi accompagna il marito nel lavoro e nei viaggi, svolgendo un ruolo attivo e importante. Ha una grazia naturale autentica, da donna vera. I Carter sono l’antitesi dei Clinton, per citare gli unici due presidenti democratici degli ultimi 40 anni. Tanta sostanza e poco glamour. L’età li aiuta. Il vecchio Jimmy ha l’aria di uno che non ha (o non ha più) niente da dimostrare, lui che è stato considerato una meteora, un perdente, un povero ingenuo non molto capace, con un livello finale di popolarità fra i più bassi della storia americana, preludio al travolgente avvento di Reagan. Parliamo di un passaggio fondamentale, perché la prepotente svolta a destra degli anni Ottanta caratterizza ancora oggi la politica americana (e di riflesso quella mondiale). Basta pensare che Bush padre vinse come vicepresidente di Reagan le elezioni del 1980 contro Carter.
In che cosa aveva fallito Carter? Sicuramente nel campo economico, perché non era riuscito a invertire la tendenza degli anni Settanta, cioè una forte inflazione accompagnata alla mancata crescita, con alti livelli di disoccupazione. Né aveva attuato riforme sociali efficaci, anche perché era venuto meno molto presto l’appoggio del suo stesso partito, che lo ostacolava al Congresso.
Secondo alcuni analisti, quelli che attribuiscono il crollo dell’Unione Sovietica e del comunismo alla politica aggressiva di Reagan, Carter sarebbe stato un fallimento anche nella politica internazionale. Ma le cose non stanno proprio in questi termini. Carter sicuramente non era uno da Realpolitik. Smise di finanziare il dittatore Somoza in Nicaragua, favorendo così la vittoria dei sandinisti. Reagan al contrario pagò la guerra civile dei “contras” con i soldi della armi vendute sottobanco all’Iran.
Carter restituì il canale di Panama ai legittimi proprietari, i panamensi, perché non concepiva il ruolo degli Stati Uniti come impero mondiale. Non a caso è stato l’unico presidente ad operare drastici tagli alle spese militari, che con Reagan tornarono a crescere a ritmi vertiginosi (mai quanto con Bush figlio, comunque). E con la mediazione del presidente americano, l’Egitto, il vero protagonista di tutte le guerre arabo-israeliane, chiuse per sempre le ostilità con Israele, con gli accordi di Camp David del 1978 e il successivo trattato di pace. Non è poco. Ma gli annali ci hanno rimandato invece l’immagine di un uomo debole e contraddittorio. Però Carter non esitò minimamente quando decise il boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca in seguito all’invasione sovietica dell’Afghanistan. E anche l’episodio che segnò la fine della sua presidenza, cioè la trattativa sugli ostaggi dell’ambasciata americana a Teheran (che alla fine si concluse positivamente, a parte il tragico tentativo di blitz), merita di essere inquadrato più correttamente, non solo come l’ennesima umiliazione subita dagli USA in quegli anni. Per quanto odioso fosse colpire un’ambasciata e tenere in ostaggio il personale diplomatico, le richieste dell’Iran erano sicuramente fondate: volevano l’estradizione dello Scià Reza Pahlevi, che era stato un dittatore spietato e un affamatore di popolo, non certo il sovrano da fotoromanzo che ci è stato propinato per trent’anni, e volevano che gli USA si scusassero per il colpo di stato del 1953 orchestrato dalla CIA contro il presidente eletto Mossadeq (la famosa difesa della democrazia), colpevole di voler porre fine allo sfacciato sfruttamento del petrolio iraniano da parte delle compagnie anglo-americane.
Insomma, Carter fu sicuramente criticato molto al di là dei suoi demeriti, proprio come Reagan è ancora oggi incredibilmente sopravvalutato. Nel caso di Carter, ci sono voluti 22 anni di paziente, tenace lavoro diplomatico, come mediatore di conflitti e come osservatore imparziale dei processi elettorali in decine di paesi nel mondo, per avere un grande riconoscimento come il Nobel per la pace (2002).
In confronto, il premio ad Al Gore è stata veramente un’operazione mediatica. La Fondazione Carter si è guadagnata sul campo la grande considerazione di cui gode, e che gli è valsa pochi mesi fa l’invito a monitorare il delicato processo di transizione democratica in Nepal. Eppure, Carter continua ad attirare critiche durissime, anche da parte di intellettuali considerati “super partes” come il francese Bernard Henry Lévy.
Lo vorrebbero dipingere come un vecchio rimbambito che parla a sproposito, e questo essenzialmente per un motivo: Carter ha infranto uno dei tabù della politica estera americana, vale a dire il sostegno incondizionato a Israele di fronte alla tragica questione palestinese. Un anno e mezzo fa, l’ex presidente americano ha osato sostenere che “il controllo e la colonizzazione israeliana della terra della Palestina sono stati i principali ostacoli per un accordo di pace in Terra Santa”, e che nei territori occupati vige un apartheid di fatto fra gli israeliani e i palestinesi. E’ una realtà sotto gli occhi di tutti, da anni, ma nell’agenda politica internazionale dettata dagli USA equivale ad una bestemmia. Aver accettato di incontrare i leader di Hamas, che bene o male rappresenta la maggioranza dei palestinesi, è stato considerato un atto grave, inaudito. Carter non se ne preoccupa minimamente. Da buon cristiano, ha imparato probabilmente che “nessuno è profeta in patria”. Ha la serenità di chi è nel giusto, lo sguardo limpido di chi ha vissuto una vita coerente ai propri principi morali. Uno come lui, un po’ come Mandela, induce a pensare che la vecchiaia può essere vissuta con splendida dignità. Il giovane Obama, se diventerà il prossimo presidente degli Stati Uniti, non sarà solo. Più che un punto di riferimento, Carter si può considerare un padre nobile, essendo fra l’altro della stessa generazione di un grande leader venuto proprio dalla Georgia: Martin Luther King.



Cesare Sangalli