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Osservatorio africano

Pubblicato su “Galatea”, aprile 2005

Quando il Benin batte l’Italia

Ci sono notizie che diventano subito patrimonio collettivo, o, come si dice di dominio pubblico. Notizie che fanno tendenza, si inseriscono in un contesto noto, in uno schema di pensiero radicato. Se la Cina, per esempio, sorpassa l’Italia nell’economia, il dato viene accettato come normale: il boom cinese è annunciato da anni, non si è mai parlato così tanto della Cina, e anche i più distratti hanno dovuto constatare l’avvento del “made in China”. In questo senso, la notizia è un po’ meno notizia, dovrebbe destare minore attenzione. Succede invece che l’informazione segue sempre di più le mode, come se subisse la scaletta dettata dalla televisione, in un circolo vizioso, un gioco di specchi che determina l’“attualità”.
La notizia in questione è in realtà apparsa già una volta, due anni fa. Allora non andò oltre un trafiletto nelle pagine interne dei maggiori quotidiani, come una curiosità esotica: nella classifica annuale di RSF (Reporter senza frontiere) sulla libertà di stampa nel mondo, il Benin, piccolo stato africano, si era piazzato meglio dell’Italia.
Bene, lo strano caso si è ripetuto, e stavolta il silenzio è stato ancora più totale. Nella graduatoria del 2004, l’Italia è trentanovesima, ultima fra i paesi dell’Unione Europea, superata nettamente dal Benin, che sta al 27° posto. Difficile sostenere che RSF abbia un approccio “terzomondista”, visto che ai primi dieci posti ci sono solo paesi europei. Difficile anche pensare che sia in qualche modo sbilanciata a “sinistra”, visto che all’ultimo posto c’è la Corea del Nord e al penultimo Cuba, anche se è chiaro, come spiega RSF nella presentazione, che a penalizzare l’Italia è soprattutto il conflitto di interessi di Berlusconi e le sue posizioni monopolistiche nell’editoria e nella televisone. Prima di approfondire il caso del Benin, si possono trarre diversi spunti di riflessione dai dati nudi e crudi.
Quello più evidente è che ricchezza e libertà non procedono necessariamente di pari passo, non sono concatenate in un rapporto di causa / effetto. L’esempio più eclatante è rappresentato da Singapore, che con un reddito pro capite superiore a quello italiano occupa un desolante 147° posto in quanto a libertà di stampa, oltre ad avere una politica dominata dal partito unico. Tanto per citare un altro caso curioso, le favolose isole Seychelles, paradiso turistico e fiscale del jet-set internazionale, hanno la stessa (mediocre) posizione della poverissima Guinea Bissau..
Per quanto riguarda i paesi con la peggiore situazione, si notano tre tendenze di fondo. Intanto, ci sono i paesi che sono ancora ufficialmente comunisti, anche se economicamente hanno abbracciato il capitalismo, come la Cina e il Vietnam. Poi ci sono quelli ufficialmente post-comunisti ma che vivono sotto regimi autoritari legati alla Russia, dall’Uzbekistan alla Bielorussia, inclusa la Russia stessa. Infine, c’è praticamente tutto il mondo arabo, che vede un solo paese nei primi cento del mondo (il Libano), mentre è già molto meno evidente che il problema riguardi tutti i paesi islamici: è una distinzione che si dovrebbe fare sempre più spesso.
E veniamo al Benin. Un piccolo stato affacciato sull’Atlantico, una striscia di terra fra il Togo e la Nigeria, sette milioni circa di abitanti (vedi “Galatea”, febbraio 2003). Anche se oggi è fra i paesi africani meno conosciuti, il Benin ha una storia leggendaria, legata al regno che si chiamava Dahomey, uno dei pochi stati organizzati a sud del Sahara, una monarchia durata oltre tre secoli. Questa era e resta la patria del vodoun, una religione tradizionale basata sul culto degli spiriti, la stessa volgarizzata come magia nera dal cinema horror sugli zombi, i “morti viventi”. I feroci sovrani del Dahomey gestirono la tratta degli schiavi da pari a pari con gli europei, almeno fino all’avvento definitivo dei francesi, che ne fecero una colonia alla fine dell’Ottocento, quando il paese era stato ribattezzato dagli europei “Costa degli Schiavi”. Per questo il vodoun è stato trapiantato ad Haiti, ed è nell’isola caraibica che è diventato famoso. Ma a Port au Prince non c’è un mercato dei feticci impressionante come quello di Cotonou, in Benin, e ad Haiti non c’è una città sacra come Ouidah, con il Tempio del Pitone che brulica di serpenti, liberi fra l’altro di andarsene in giro perché sono innocui e soprattutto perché sono considerati i protettori della città.
Questo è per dire quanto siano profonde le radici africane in questo paese, che è stato meno contagiato dall’Occidente rispetto alla vicina Nigeria, o alla Costa d’Avorio, per citare una ex colonia francese. Fa ancora più effetto pensare che il pluralismo dell’informazione, il giornalismo indipendente abbiano potuto svilupparsi in un paese dal passato così oscuro e misterioso. Il Benin è stato a lungo ingovernabile, nei primi anni dell’indipendenza, quando ancora si chiamava Dahomey. A dargli un assetto unitario e a cambiargli il nome arrivò Mathieu Kérékou, un militare di ispirazione marxista che conquistò il potere nel 1972 e che volle fare del paese degli spiriti e della magia una nazione impostata secondo i principi del socialismo scientifico, come recitava il nuovo ordinamento.
Per molti anni, la pratica del vodoun fu vietata, e il popolo indottrinato (si fa per dire) ad un improbabile comunismo in versione equatoriale. Ma la religione buttata fuori dalla porta rientrò dalla finestra proprio con l’avvento della democrazia. Anche se ad incrinare il regime “materialista” fu innanzi tutto la questione economica. A metà degli anni Ottanta, infatti, tutta la solidarietà internazionale di cinesi e sovietici si era ridotta a ben poca cosa: Kèrékou si vide costretto come molti suoi colleghi a mettere da parte i discorsi ideologici e rivolgersi ai garanti dell’odiato capitalismo, i funzionari del Fondo monetario internazionale. Per avere un po’ di credito, bisognava ridurre le spese statali, e l’amara ricetta finanziaria esasperò ulteriormente la popolazione, a cominciare dal settore scolastico. Nel mitico 1989, tutta l’Africa occidentale era in subbuglio, non solo l’Europa dell’est: la contestazione del potere si fece aperta, sfacciata. Kérékou, che era stato comunque un dittatore illuminato, non volle precipitare il paese nel caos, e accettò un tavolo di trattativa con tutte le componenti della società, a cominciare dalla Chiesa cattolica. Il garante della transizione democratica fu un vescovo di straordinario carisma, rispettato da tutti, monsignor Isidore De Souza. Quasi a mantenere l’aura di magia del paese, De Souza era originario proprio della città sacra di Ouidah, discendente di un leggendario negriero brasiliano che si era trapiantato nel Dahomey come viceré, nominato da uno degli ultimi sovrani della dinastia reale (l’uomo che ha ispirato Bruce Chatwin per il libro “Il viceré di Ouidah”).
Tutta la tremenda violenza che aveva accompagnato per secoli la storia del Benin sembrò dissolversi quasi per incanto: non ci furono martiri nella caduta del regime, fu un’eutanasia concordata, come la “rivoluzione del velluto” a Praga (dove pure l’esercito sparò sulla folla, facendo alcuni morti). E’ la violenza il primo nemico della democrazia, è bene ricordarlo sempre, e quindi il primo nemico della libertà di stampa.
Fatto sta che in Benin, nonostante la povertà, l’enorme tasso di analfabetismo (il 60 per cento) e tutti gli altri problemi legati al sottosviluppo, il giornalismo libero ha attecchito, e riesce a trovare insospettabili canali di comunicazione. Uno dei programmi più seguiti della televisione è proprio la rassegna stampa, condotta in modo sfrontato e brillante da uno speaker di eccezionale bravura (al confronto “Striscia la notizia” è cloroformio). Al resto provvedono le varie emittenti radiofoniche, ma soprattutto il passaparola, che in Africa è impressionante, e fa volare ogni notizia da un angolo all’altro del paese con una rapidità incredibile.
I paradossi africani dovrebbero stimolare la nostra capacità critica,resa ogni anno un po’ più debole dalla massa di informazioni senza senso da cui siamo invasi, in cui le banalità o i fatti comunque secondari diventano importantissimi e le cose importanti finiscono oscurate nelle pagine interne o addirittura cancellate. Senza neanche accorgercene, noi finiamo per adeguarci a questa assurda rincorsa dell’”attualità”, per cui come si smette di parlare della morte di Nicola Calipari si torna immediatamente a celebrare Sanremo, senza soluzione di continuità. Nel momento in cui questo articolo viene chiuso, la “Repubblica” presenta quattro pagine sul caso di Alessandra Mussolini e tre su quello di Terri Schiavo (una storia assurda imposta a tutto il mondo). Ma del processo in corso per i fatti di Genova, il famigerato G8 del 2001 (forse il più grave episodio degli ultimi dieci anni in Italia), non è dato sapere nulla, assolutamente nulla. Sono solo esempi, fra i tantissimi che ognuno di noi può trovare, se solo si ferma un attimo a pensare. Siamo ciechi e sordi ai segnali che arrivano dal sud del mondo, perché siamo immersi nel nostro “reality show” permanente. In questo paese così avvolto su se stesso, il Benin che batte l’Italia nella libertà stampa non è una notizia per nessuno.

Cesare Sangalli