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Una fame antica, anzi moderna
I figli del "colonialismo straccione"
Ombre cinesi sul Continente nero
In piedi, entra la Corte
L'altro Congo

Un fallimento chiamato Kenya - nuovo

Osservatorio africano

 

Le ombre dell'arcobaleno

 

L'hanno chiamata “Rainbow Nation”, la “Nazione Arcobaleno”. E' il paese che più di ogni altro ha alimentato le speranze del Continente Nero, almeno da quando è caduto l'ultimo bastione ufficiale del razzismo, il regime dell'apartheid. A parlarne oggi sembra incredibile che in Sudafrica, fino al 1994, i più elementari diritti, a partire dal diritto di voto, fossero negati alla stragrande maggioranza della popolazione. Eppure le prime elezioni secondo il semplice principio “one man, one vote” si sono svolte giusto dodici anni fa, ai tempi del primo governo Berlusconi in Italia. E la costituzione del nuovo Sudafrica, una delle più avanzate e progressiste del mondo, ha appena compiuto dieci anni.

Il cammino della libertà è stato davvero lungo, come spiega Nelson Mandela nell'autobiografia che ha per titolo “Long walk to freedom”. Ancora nel 1988, l'ambasciatore sudafricano in Italia spiegava che tutto sommato le cose andavano abbastanza bene, che qualche riforma era sicuramente necessaria, ma che il Sudafrica era ingiustamente penalizzato dall'immagine negativa presentata dai media internazionali. E' bene ricordare che all'epoca c'erano ancora persone che consideravano Mandela un potenziale terrorista, che Ruud Gullit, il campione del Milan, lasciò tutti a bocca aperta quando dedicò al leader sudafricano, ancora in carcere a Robben Island, il Pallone d'oro 1987, invece di citare la mamma o di far piacere ai tifosi, come avrebbe fatto il tipico calciatore italiano. Il Sudafrica razzista stava bene un po' a tutti, compresi i non pochi italiani che avevano cercato fortuna da quelle parti.

I commentatori “moderati” paventavano rivoluzioni violente e sanguinose vendette, qualora i neri (all'epoca si diceva ancora “negri”) avessero preso il potere: magari si dovevano abolire le forme più odiose e inutili di discriminazione (come De Klerk aveva già iniziato a fare), ma prima di dare il voto alla maggioranza esclusa, e quindi il potere all'African National Congress , bisognava pensarci due volte.

Il fatto è che la Storia , dal 1989 in poi, si è messa a correre, e i leader politici, con pochissime eccezioni, arrancavano afasici, delegando alla “mano invisibile” del capitalismo tutte le soluzioni, che poi soluzioni non erano. Così, si sono riempiti un po' tutti di meraviglia quando hanno visto che il nuovo Sudafrica nasceva all'insegna della riconciliazione, della democrazia, della stabilità. Nelson Mandela è apparso per quello che era, un grande statista, un gigante, a fronte di un'interminabile galleria di nani che si sono succeduti alla guida dei cosiddetti paesi “occidentali” (a proposito, chissà se nel concetto rientra anche il Sudafrica) e che se ne vanno senza lasciare una traccia vera, significativa (l'ultimo è Tony Blair, l'ennesimo astro nascente virtuale: la cosa che più si ricorderà di lui sono le bugie sulle armi di distruzione di massa per portare le truppe britanniche in Iraq: per il resto, business as usual ).

Ma celebrare soltanto Mandela sarebbe alla fine ingiusto nei confronti di un intero popolo che ha dato una grande prova di civiltà, l'ennesima di una nazione africana nella storia recente. Negli stessi anni, infatti, nuove democrazie si sono stabilite nel continente, senza traumi e senza fanfare, crescendo da sole: Ghana, Benin, Senegal, Mali, Zambia, Kenya, Tanzania, Mozambico, Madagascar. Paesi grandi e paesi piccoli, a maggioranza cristiana o islamica, dal deserto del Sahara alle coste dell'Oceano Indiano. Il nuovo Sudafrica aspira a diventare la loro locomotiva, e in parte ci sta già riuscendo. Tanto per cominciare, nessun altro paese al mondo investe in Africa quanto la “nazione arcobaleno”, che ha scalzato dal vertice, in compagnia della Cina, tanto gli Stati Uniti quanto le vecchie potenze coloniali, Francia e Regno Unito. Il Sudafrica, che da solo rappresenta più di un quarto dell'intera economia continentale, ha praticamente “inglobato” le vicine Namibia e Botswana, e lo stesso sta avvenendo con il Mozambico. E' come se la forza sudafricana stesse risalendo il continente in direzione nord, arrestandosi ovviamente alla soglia (invalicabile) dei paesi arabi. La spinta decisiva alla creazione dell'Unione Africana, che ha sostituito la vecchia Organizzazione per l'unità africana (OUA), nata nel 1963, è venuta dal Sudafrica, non certo dal panafricanismo di Gheddafi, le cui aspirazioni di grandezza sono sempre inversamente proporzionali ai risultati effettivi.

Certo, è presto per valutare l'effettiva consistenza della nuova costruzione politica, e se si pensa al lento e faticoso cammino che c'è voluto per arrivare all'Unione Europea non c'è da essere troppo ottimisti. Ma è lecito pensare che in futuro non si possa più ricreare una situazione come quella che provocato il genocidio ruandese, perché l'Unione Africana non delegherà più all'ONU, passivamente, la soluzione di tutti i suoi conflitti interni.

Oltre all'influenza economica e a quella diplomatica, il Sudafrica ha il non facile compito di organizzare i prossimi mondiali di calcio, quelli del 2010, i primi in terra africana. Ma questo è il settore in cui il continente ha saputo raggiungere risultati spettacolari, considerando il punto di partenza, anche se un successo sportivo (diciamo una squadra africana nelle prime quattro) avrebbe una ricaduta mediatica enorme.

Insomma, la nazione di Nelson Mandela è lanciata verso un futuro che si spera radioso. Ma intanto però stanno crescendo le ombre, in mezzo ai colori dell'arcobaleno. Il primo lato oscuro è l'ingiustizia sociale, la grande sperequazione della ricchezza che ha spostato i confini dell'esclusione dalla sfera politica a quella economica. E' uno schema classico in tutte e tre le nazioni africane che hanno una minoranza europea radicata al loro interno: Sudafrica, Namibia e Zimbabwe (vedi reportage sulla Namibia, “Galatea” ottobre 2004): il potere politico ai neri, quello economico ai bianchi.

Olandesi (meglio conosciuti come “Boeri”), tedeschi e inglesi, autentici pionieri, si trasferirono nell'Africa australe fra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento. Cominciarono quasi tutti come proprietari terrieri, coltivando con successo le terre migliori, strappate ai locali con la forza. I “farmers” europei sono stati dovunque lo zoccolo duro dei regimi razzisti, i boeri su tutti, imbevuti di un calvinismo fanatico e violento. Si considerano africani bianchi, perché lavorare la terra crea appartenenza e radici, soprattutto dopo quattro o cinque generazioni. Nessuno ha intaccato i loro privilegi, perché producevano benessere (soprattutto per se stessi) e creavano posti di lavoro. In Sudafrica e in Namibia la minoranza europea rappresenta anche l'élite imprenditoriale e finanziaria, a partire dal settore minerario: valga per tutti l'esempio dell'onnipresente De Beers, che gestisce oltre il 50 per cento del mercato mondiale dei diamanti. Solo in Sudafrica si è formata una borghesia nera che ha affiancato quella bianca, mentre in Namibia e Zimbabwe i neri benestanti rappresentano i beneficiati del potere politico. Ma il Sudafrica si porta dietro una disoccupazione che sfiora il 40 per cento, e riguarda dieci milioni di persone sui 44 milioni di popolazione. Troppi. La democrazia non sopporta livelli troppo alti di povertà, di cattiva distribuzione del reddito. La seconda ombra dell'arcobaleno sudafricano, la delinquenza, è sicuramente correlata all'esclusione sociale: il tasso di omicidi (fonte:“Limes”) è cinque volte superiore a quello degli Stati Uniti, che già rappresentano una delle società più violente a livello mondiale.

Ad esasperare il fenomeno criminale contribuisce sicuramente anche la piaga dell'AIDS, la terza ombra sudafricana, con oltre cinque milioni di persone sieropositive: le famiglie decimate dalla malattia non riescono a seguire i figli che vivono nel degrado delle enormi periferie ai margini delle città, tutta potenziale manovalanza per la criminalità. Il film “Tsotsi”, premiato con l'Oscar per il migliore film straniero, narra proprio la storia di un ragazzino cresciuto nell'abbandono totale, il padre violento, la madre malata di AIDS, la polizia alle calcagna, una baracca per abitazione. Il tema della violenza è presente anche nell'opera del premio Nobel Coetzee, secondo scrittore sudafricano premiato dall'Accademia di Svezia dopo Nadine Gordimer nel 1991. Nel suo romanzo “Vergogna”, la violenza sembra seguire un percorso di nemesi, da tragedia greca, come una punizione, anche se ingiusta, perpetrata dalle vittime di ieri, nei brutali rapporti di forza che la città ha occultato, ma che riemergono senza veli nelle aree rurali.

Il più interessante esperimento giuridico di fine secolo, (cioè confessare spontaneamente i reati per accedere all'assoluzione garantita), la “Commissione di verità e riconciliazione”, presieduta dal vescovo Desmond Tutu, non poteva risolvere tutti i problemi del passato, anche se ha avuto un significato enorme. Molti commentatori l'hanno paragonata ad una gigantesca terapia psicanalitica, l'esperienza catartica di una nazione intera. Ma la natura elitaria del regime non è stata modificata, nonostante le quote riservate in tutta la pubblica amministrazione, nell'esercito, nella polizia. Il pragmatismo tipicamente anglosassone ha prevalso su ogni tendenza egalitaria, che pure era molto forte nell'African National Congress delle origini. E' probabilmente anche una questione generazionale: la vecchia leadership ha ottenuto l'obiettivo per cui ha lottato per circa 80 anni. Per le nuove, impegnative sfide della nazione arcobaleno, serviranno i nipoti di Nelson Mandela, il grande “Madiba”: la sua straordinaria eredità morale non andrà perduta.

 

Cesare Sangalli