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Osservatorio africano

 

Una fame antica, anzi moderna

(pubblicato su “Galatea”, anno 2007)

 

Le notizie sulla fame nel mondo si rincorrono, aumentando la confusione. La notizia numero uno recitava: per la prima volta nella storia del pianeta, il numero degli obesi supera quello delle persone che non si nutrono abbastanza. Per quello che possono valere statistiche così ampie, il sorpasso sarebbe avvenuto intorno a cifre vicine al miliardo di persone: in maniera assolutamente grossolana, si potrebbe sostenere che il 70 per cento degli esseri umani è sostanzialmente a posto, dal punto di vista del fabbisogno alimentare, mentre il 15 per cento ha assolutamente bisogno di una dieta e un altro 15 per cento invece deve lottare per sopravvivere. E' una buona notizia? Dipende da come la si guarda. Così come l'allarme lanciato dalle Nazioni Unite sull'aumento del numero totale degli affamati nel pianeta, anche se la percentuale sugli abitanti del mondo è diminuita.

Insomma, si producono in generale più risorse per più persone, ma non si riesce a fare in modo che tutti ne abbiano abbastanza, anzi, l'impegno per dimezzare il numero delle persone sottonutrite entro il 2015 appare già gravemente compromesso.

La maggior parte degli esclusi dal progresso alimentare vive in Africa. Per quanto grossolane, le statistiche non mentono: la fame è sempre più un problema monopolizzato dal Continente Nero. L'Asia e l'America latina, in buona sostanza, hanno sicuramente il problema della povertà diffusa, ma la fame rappresenta un problema di nicchia. Non a caso il presidente brasiliano Lula ha affrontato la questione in termini direttamente assistenziali, fornendo a 13 milioni di persone la “ bolsa familia ” nel quadro del programma “ Fome zero ”: lo stato versa direttamente una somma mensile (40 euro circa) alle famiglie che si impegnano a mandare i bambini a scuola, cercando quindi di non creare un meccanismo fine a se stesso.

A Cuba da molto tempo c'è la “ canasta basica ”, cioè una quantità di prodotti alimentari (riso, olio, uova, fagioli e altro) forniti gratuitamente alla gran parte della popolazione, il che fa molto economia di guerra, ma almeno consente all'isola di Castro di avere buoni indici di sviluppo umano.

In Africa non è così. Nessuno stato fra quelli toccati dal problema sembra potersi permettere una distribuzione gratuita del cibo, e meno che mai un'assistenza finanziaria diretta. Queste sono operazioni delegate alla comunità internazionale, con risvolti paradossali: portare quantità minime di cibo alla gente costa un'enormità, e conviene più a chi deve gestire queste operazioni quasi sempre affette da gigantismo (anche solo per i costi dei trasporti) che ai beneficiari. L'altro paradosso è che dove opera la comunità internazionale (per esempio, dove c'è un numero elevato di rifugiati), si crea rapidamente una tendenza generale ad usufruire degli aiuti. Perché dannarsi a coltivare la terra per vivere, quando c'è la possibilità di avere cibo gratis, o quantomeno di integrare le scarse risorse alimentari? Le condizioni sono spesso così estreme che chiedere aiuto è la soluzione più naturale, e nessuno può scandalizzarsi per questo.

In realtà, il meccanismo dell'assistenza diretta (qualcuno direbbe dell'assistenzialismo) vale solo in circostanze particolari, che hanno a che fare con guerre (Sudan, Ciad, Etiopia, Eritrea, Sierra Leone, Liberia) o con disastri naturali (dalla siccità all'invasione dei cavallette). In condizioni appena “normali”, gli agricoltori africani riescono quasi sempre a sostentarsi da soli. Eppure questo concetto non è ancora accettato nelle analisi globali da economisti, sociologi, intellettuali vari. Le interpretazioni sul problema della fame, che poi è la questione primaria dell'economia, divergono completamente.

I teorici della globalizzazione continuano a sostenere che il libero mercato è la soluzione di tutto. Hanno indubbiamente diverse frecce al loro arco: prendete l'Asia, dicono. La fame è diminuita o è stata cancellata nei paesi che si sono aperti al commercio, che hanno accettato la competizione mondiale, che hanno attratto al loro interno massicci investimenti privati stranieri. Fate girare l'economia, a tutti i costi, e il resto seguirà. Magari non nell'uguaglianza, e magari non nella libertà, ma il gioco alla fine conviene a tutti. In questa visione, il principale problema dell'Africa è costituito dal protezionismo agricolo di Europa e Stati Uniti, e dai loro massicci aiuti statali alle produzioni che alterano la vera competizione commerciale, impediscono cioè alla “mano invisibile” del mercato di produrre le sue meraviglie. Via gli aiuti ai nostri agricoltori (che oltretutto rappresentano dovunque meno del 5 per cento della forza lavoro) e via i dazi ai prodotti del sud del mondo: i problemi (compresa la fame) spariranno.

La tesi dei fautori della globalizzazione (per ultimo Federico Rampini sulle pagine di “Repubblica”) ha sicuramente alcuni elementi di verità, ma nel complesso non convince affatto, e sembra anzi viziata da una buona dose di ipocrisia. Parlando di prodotti agricoli, per esempio, non si fa mai riferimento a quelli che non devono certo entrare in concorrenza con Europa e Stati Uniti, come le banane, il caffè, il cacao, e altri prodotti tipicamente tropicali. Perché il prezzo di queste materie prime è rimasto invariato per anni, o è addirittura diminuito, a fronte dei continui aumenti dei beni industriali “occidentali”? Non è forse perché “chi compra comanda, e chi vende serve”, come sostiene brillantemente Eduardo Galeano nel celebre saggio, che la realtà non ha mai smentito veramente, “Le vene aperte dell'America Latina”? Che cos'è il sottosviluppo, se non, almeno in gran parte, il prodotto del cosiddetto “scambio diseguale” fra i paesi industrializzati (o post-industriali) e quelli rurali? Sul perché l'Africa non abbia vissuto un reale processo di industrializzazione si possono avanzare mille ipotesi. Alcune sconfinano nel fatalismo; la camerunese Axel Kabou, citata da “Limes”, si chiedeva se gli africani rifiutassero lo sviluppo perché “ormai colonizzati nella coscienza”, tanto da essere gli unici al mondo a credere che il loro sviluppo dipenda da altri. Un africanista di “Le Monde” sostiene che “l'Africa muore perché si suicida”. Fatto sta che “quarant'anni dopo l'indipendenza, non produciamo nemmeno una biro”, secondo lo storico Joseph Ki-Zerbo. Dubbi legittimi, analisi impietose, ma tutto troppo negativo.

La realtà rurale africana, che resta maggioritaria in quasi tutti i paesi del continente, merita rispetto. Ha subito ogni tipo angheria (dai colonizzatori, dai dirigenti “colonizzati”, dai signori della guerra armati dai paesi ricchi) e di difficoltà ambientale senza mai restituire la violenza. E' stata derubata da tutti, ma non ruba a nessuno. Ha dovuto pagare in prima persona ogni ambizione politica del rivoluzionario di turno, con le collettivizzazioni forzate, con la proprietà statale dei mezzi di produzione, e altre innovazioni marxiste che per fortuna sono fallite miseramente (quanto è costata l'industrializzazione dell'Unione Sovietica, in termini di vite umane? Quanti morti per privazioni e violenze ha fatto “il grande balzo in avanti” della Cina di Mao alla fine degli anni Cinquanta?). All'opposto, l'agricoltura africana ha creduto agli inganni del libero mercato, quando si è messa a produrre i “cash crops”, i raccolti destinati all'esportazione, che arricchiscono soprattutto i governanti deboli o corrotti o tutt'e due, e le multinazionali che dettano legge sui prezzi e sui pagamenti, per ritrovarsi poi senza soldi per comprare il cibo di cui non disponeva più (i “food crops”), fossero i i pomodori cinesi inscatolati in Italia, venduti talmente a basso prezzo da schiantare i prodotti locali, o il mais geneticamente modificato del Canada o degli Stati Uniti, o il latte in polvere della Nestlé.

C'è voluto un premio Nobel per l'economia come l'indiano Amartya Sen per sentire per la prima volta che le grandi catastrofi alimentari non erano il prodotto inevitabile di una sciagura naturale, ma il risultato dell'egoismo umano che non sa ridistribuire il reddito. La gente, cioè, moriva di fame non perché mancavano le derrate alimentari, ma perché non c'erano i soldi per comprarle. Sarà stato un caso marginale, ma è bene ricordare che pochi anni fa, nella moderna e occidentale Argentina che veniva da un decennio di liberismo ortodosso, è ricomparsa la fame, sono morti bambini a decine per mancanza di cibo.

E c'è voluto il Nobel per la pace a Mohamed Yunus, inventore della “Grameen Bank” e del microcredito agli esclusi, ai derelitti della Terra, per capire che i poveri non sono poveri per colpa loro, meno che mai quelli che muoiono di fame, e che basta solo un po' di fiducia e un po' di onestà per avere risultati straordinari, anche se ad un livello non ancora appetibile per la grande finanza. Per questo molti commentatori hanno detto che Yunus doveva avere il Nobel per l'economia, più che quello per la pace. Forse l'Africa, il buco nero dell'economia classica, di destra o di sinistra, sta lì a dimostrare che buona parte dell'umanità ha bisogno di poco, di pochissimo, per vivere dignitosamente.

 

Cesare Sangalli