Di cosa parliamo quando parliamo di Africa
Lezioni di calcio
I coccodrilli di Yamoussoukro
Colonnello, non voglio il pane…”
In nome di Allah clemente e misericordioso
L'albero delle donne e la donna degli alberi
Tutti a casa
Democrazia nel deserto
Figli di papà
E' mattina in Etiopia
Hotel Rwanda
Quando il Benin batte l'Italia
Il bandito e il campione
La seconda generazione
Un rebus chiamato Nigeria
Doctor Schweitzer & Mister Hyde

The African Job
Le mani sul Congo
I bravi maestri e i cattivi alunni
Le due Somalie
La luna calante e il giovane re
Democrazia turistica alla tunisina
Alle radici dell'odio

Le ombre dell'arcobaleno
Una fame antica, anzi moderna
I figli del "colonialismo straccione"
Ombre cinesi sul Continente nero
In piedi, entra la Corte
L'altro Congo

Un fallimento chiamato Kenya - nuovo

 

“Colonnello, non voglio il pane…”

“…Voglio il piombo del mio moschetto”. Era il ritornello (idiota) di una canzoncina fascista del 1941, e riguardava curiosamente l’Africa: si combatteva la guerra del deserto, quella di Rommel e Montgomery, e “..la fine dell’Inghilterra incomincia da Giarabub”, in Libia. Oggi da quelle parti ci vanno i turisti con i fuoristrada, ma diverse centinaia di chilometri a sud si consuma l’ennesima “catastrofe umanitaria”, come l’ha definita Sergio Romano sul “Corriere della Sera”, correggendo chi parla di “genocidio” per il Darfur, regione occidentale del Sudan al confine con il Ciad. Le dispute formali sono un passaggio obbligato per la politica internazionale, ma se il termine “genocidio” appare eccessivo, il termine “catastrofe umanitaria” suona davvero ipocrita.
Nel Darfur è in corso una guerra “a bassa intensità”, come tutti i conflitti africani, senza eccezione alcuna. Le vittime di questi scontri senza logica militare, senza vincitori e vinti, sono quasi esclusivamente le popolazioni. Dove la povertà raggiunge livelli drammatici, non si trova di meglio che fare la guerra, con i paesi ricchi nel ruolo di spettatori interessati (ma non all’aspetto umanitario).
E’ un paradosso tale che il ritornello di cui sopra potrebbe essere la sintesi di tutta la politica occidentale nei confronti del Sud del mondo e dell’Africa in particolare. Più mitra che grano. Più mine che medicinali. In alcuni paesi ci sono intere generazioni che conoscono perfettamente un kalashnikov, ma sono praticamente analfabete. Qualcuno dirà che è semplicistico metterla in questi termini. Però sono “semplicistiche” anche le statistiche, che dicono che due terzi delle armi prodotte finiscono nei paesi del sud del mondo, asiatici, africani, latinoamericani. Si attendono smentite.
“Il manifesto” ha scritto che la portaerei “Cavour”, recentemente varata, senza imbarazzo alcuno, dall’ineffabile Carlo Azeglio Ciampi, ha un costo che è quattro volte superiore all’intera cifra che l’Italia dedica ogni anno alla cooperazione. Qualcuno dica che non è vero. Qualcuno provi a smentire che per l’ intervento “umanitario” in Iraq le spese militari sono decine di volte superiori a quelle per l’intervento sanitario e quant’altro (ben poco), come denunciato dalla “iena” Alessandro Sciortino.
Il fatto è che nessuno vuole davvero aprire questo capitolo, quello delle spese militari e del commercio delle armi. Si potrebbe per esempio capire che da questo punto di vista non c’è stata differenza fra prima e dopo l’ingresso in Europa, fra destra e sinistra, fra Prodi e Berlusconi. Si taglia sulle scuole, sulla sanità, su tutto, ma nessuno chiude i rubinetti nel settore militare, il più costoso e inutile di tutti, la vera aberrante idiozia della modernità. A quanto pare, ci si sente ancora orgogliosi di sfoderare le armi più sofisticate, invece di vergognarsene profondamente: da questo punto di vista, la soddisfazione degli italiani in crisi per la gigantesca, incredibile portaerei non è poi molto lontana dalla gioia dei poveracci pakistani e indiani per essere arrivati alla bomba atomica.
Ma torniamo al Sudan, al Darfur, dopo questa lunga premessa che forse può mettere in condizione di capire meglio in quali contesti internazionali avvengono i “genocidi” o le “catastrofi umanitarie”.
La guerra a bassa intensità del Darfur è solo l’ultimo capitolo della storia tormentata del Sudan, una nazione così sola, complessa, martoriata da fare impazzire i reporter (vedi “Galatea”, marzo 1999), che finiscono per scrivere tutti più o meno le stesse cose. O si parla delle vittime, della loro fame, delle malattie, dell’abbandono, della disperazione (per questo le immagini, sempre drammatiche, bastano e avanzano); o si cerca di ricostruire quanto meno il quadro storico, che è lo stesso da quasi mezzo secolo, cioè dall’indipendenza del 1956: il nord arabo e musulmano dominatore, il sud africano, cristiano e animista angariato, schiavizzato e quindi costretto alla ribellione.
Ma ormai anche questo schema risulta logoro. L’elemento religioso, per esempio, è da considerare irrilevante: popolazioni come i Nuba o come le etnie del Darfur sono musulmane, ma questo non ha impedito al governo di Khartoum di assediarle, terrorizzarle, ridurle alla fame, direttamente o attraverso milizie di predoni, come i famigerati janjaweed che da molti mesi stanno razziando il Darfur.
Il quadro è più semplice da interpretare e maledettamente più complicato da risolvere, proprio come in molte altre realtà africane. E’ la logica delle armi, che diventa semplicemente prassi, modus vivendi di alcuni gruppi di persone che prosperano nelle catastrofi permanenti. Quand’anche ci fossero dei motivi legittimi di imbracciare il fucile (e in Sudan c’erano), mano a mano si perdono per strada, e rimane solo l’essenza criminale della violenza. Una violenza che ricade su milioni di persone innocenti e inermi con l’unico scopo di ridistribuire soldi e potere fra capi e capetti guerriglieri, che non hanno né capacità, né idee, né valori, né progetti, perché devono limitarsi a far gestire le risorse della terra a chi ha i mezzi e le competenze per sfruttarle, e cioè le compagnie occidentali protette dai loro governi.
Nel caso del Sudan, continueranno a farci vedere immagini di disperazione africana, per finanziarie l’ennesima campagna umanitaria, ma non ci diranno quasi niente del petrolio estratto nella zona di Bentiu, si parlerà magari degli aiuti del governo canadese ma non della Talisman, compagnia petrolifera che fa lauti affari con il governo “genocida” di Khartoum da anni, non ci spiegheranno quali ricavi ha avuto la Dalmine vendendo turbine, però poi magari invieremo un contingente militare per “portare la pace” (l’Inghilterra si è già offerta). La lentezza della diplomazia internazionale è inversamente proporzionale alla velocità con cui si concludono gli affari, e quindi inevitabilmente ipocrita, come quando minaccia sanzioni che andavano applicate dieci o vent’anni prima. Per questo le situazioni si ripetono, tragiche ed esasperanti. Nessuno si sogna di interferire con il commercio del petrolio (vedi reportage sulla Nigeria, “Galatea” ottobre 1999), o dei diamanti, o di minerali preziosi, anche quando tutti sanno che con i loro proventi si finanziano guerre. Il business dei paesi occidentali che poi vorrebbero “esportare democrazia” si raddoppia e si triplica, secondo uno schema consolidato: si lucra su materie prime comprate a prezzi ingiusti grazie a presidenti, leader, signori della guerra corrotti e spietati, gli stessi a cui si vendono armi. Dopodiché si gestisce l’emergenza umanitaria e l’eventuale ricostruzione, un business enorme. Soldi, soldi, soldi sulla pelle dei dannati della terra. A volte il gioco è spudorato, ufficiale, anche perché non c’è praticamente distinzione fra manager e politici. Si pensi all’Iraq e a società come la Halliburton, o come la Chevron, che avevano come dipendenti i vari Dick Cheney, Condoleezza Rice e compagnia cantante.
Se almeno i cantori di questo ordine mondiale smettessero la nauseante litania sulla libertà, sugli scontri di civiltà e sulla lotta del Bene contro il Male, si potrebbe cominciare ad avere una visione corretta sul mondo, di cui abbiamo un’immagine sempre più virtuale, ai limiti del fumetto, con i Cattivi creati a turno dai media asserviti al mantenimento dello status quo. Finché faceva la guerra all’Iran, nessuno considerava un pericolo Saddam Hussein. Finché i curdi morivano sulle mine vendute dalla Valsella , industria a capitale Fiat, nessuno degli apostoli della democrazia versione “guerra preventiva” denunciava il genocidio del famigerato “raìs”. Figuriamoci se si spreca un po’ d’inchiostro per i mostri africani, da Charles Taylor a Omar al Beshir, da Nguema a Eyadéma. Il Sudan è considerato da vent’anni uno “stato canaglia”, e questo bastava a finanziare la SPLA (Sudan People Liberation Army) dei ribelli sudisti di John Garang, presto affiancato da una lista di altre fazioni che si accordano o si scontrano con il regime di Khartoum proprio come nelle guerre di mafia. Giusto ora che si è arrivati ad un passo dalla pace, per mezzo della quale i nemici siederanno insieme al governo, i dittatori moltiplicati si spartiranno il potere, magari prima di finire sotto processo per “crimini contro l’umanità”, si è aperto un altro fronte, quello del Darfur, con le logiche di sempre (ma almeno stavolta non ci faranno entrare la religione, visto che, è bene ripeterlo, in questo caso sono tutti musulmani). Le solite cifre, asettiche, nelle pagine interne: forse 30mila morti, circa un milione di sfollati, oltre 200mila rifugiati in Ciad in condizioni disperate. Rigorosamente dopo le pagliacciate del nostro governo balneare e le notizie sull’estate calda (con la raccomandazione di rito: bevete tanta acqua). Quando leggerete queste righe a settembre, non sarà cambiato niente: agosto non è il mese giusto, né per i “genocidi”, né per le “catastrofi umanitarie”.

Cesare Sangalli