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Osservatorio africano

Democrazia nel deserto

(pubblicato su “Galatea” febbraio 2005)

“E’ meglio contare le teste che spaccarle”: un vecchio adagio sulla democrazia, assolutamente efficace nella sua semplicità. E’ l’aspetto minimalista di un concetto che nasce più nobile, il “potere del popolo”, la grande conquista ateniese che ha dovuto aspettare una ventina di secoli per tornare in auge. Ma visti gli orrori e le violenze del Novecento, e quelle di questo Duemila che non assomiglia per niente all’”Età dell’Acquario” che i sognatori hippie vagheggiavano, meglio riconsiderare l’aspetto più pragmatico della democrazia, che è quello di eliminare, o ridurre al minimo la violenza, cercando di dividere il potere in tutti i modi, distribuendolo il più possibile. Il primo strumento è il voto, le elezioni per decidere chi deve comandare, guidare lo stato che detiene “il monopolio legittimo della violenza”, secondo un’altra classica definizione accademica.
Elezioni nei Territori autonomi palestinesi, elezioni in Irak. L’inizio del 2005 sembra favorevole alla democrazia. Quando questo articolo sarà pubblicato, sapremo come è andata a Bagdad e dintorni. Ma sappiamo fin d’ora che senza una vera sovranità la democrazia è sostanzialmente una finzione, perché il popolo palestinese non può decidere di non avere l’esercito israeliano in casa, né gli iracheni possono limitare il potere dei militari americani: il “potere del popolo” è solo una vaga rappresentazione, se il popolo non può decidere niente di importante, neanche della propria indipendenza.
E a proposito di indipendenza e di democrazia, di paesi arabi e di influenze internazionali, c’è una piccola storia emblematica che merita di essere conosciuta, spostandoci dal Medio Oriente verso l’Africa, all’estremità occidentale del mondo arabo. In Marocco. La notizia sta tutta in una dichiarazione del re Mohamed VI, durante la recente visita del pari grado spagnolo Juan Carlos: il Marocco non rinuncerà mai alla sua sovranità sul Sahara Occidentale.
La carta geografica dell’atlante De Agostini riporta i confini esatti di questo stato inesistente, segnato a strisce come ad indicare che potrebbe essere Marocco ma non lo è del tutto. E’ un pezzo di deserto grande quasi quanto l’Italia, fra Marocco e Mauritania, che si affaccia sull’Atlantico guardando le isole Canarie. Il Sahara occidentale è la terra del popolo saharawi. Un popolo del deserto, come indica chiaramente il suo nome, di origine berbera e yemenita, molto vicino ai tuareg. Parlano un dialetto arabo, l’hasanya, e sono di fede musulmana sunnita. Sono fra i popoli che sembrano condannati dalla Storia, come i palestinesi, come i curdi. La Storia scritta dai più forti, quella che preferisce “spaccare le teste che contarle”, per riprendere il concetto iniziale.
Tutta la loro esistenza storica è fondata sulla ribellione verso chi cerca (invano) di assoggettarli. Per la dinastia alawita che si installò in Marocco tutta quest’area era Bled as- siba, “il territorio della dissidenza”. I sovrani marocchini non erano mai riusciti a controllare veramente questi indomabili “uomini blu” del deserto. Poi però arrivò il colonialismo, i francesi in Marocco e Mauritania, gli spagnoli incuneati nel mezzo. Le frontiere definite con esattezza anche in territori dove regnano il vuoto, il vento, la sabbia e il silenzio, sono dovute soltanto allo scrupolo dei dominatori per non creare occasioni di dispute. Gli spagnoli impiegarono quasi cinquant’anni per assumere il controllo reale della loro colonia africana.
Ma venne anche per gli africani il momento di liberarsi dei loro padroni europei.
I saharawi parteciparono alle lotte per l’indipendenza contro la Francia degli stati vicini, il Marocco e la Mauritania. Per tutto ringraziamento verranno invasi diversi anni dopo. Dovevano passare dai padroni europei a quelli africani. Ma in mezzo c’è la lenta fine del colonialismo spagnolo, che si spenge per esaurimento insieme al franchismo. Un regime che perde forza insieme al suo caudillo, che ha tenuto la Spagna ibernata per quasi quarant’anni, nella sua ossessione antimodernista, “Dio, Patria e Famiglia”. Una dittatura decrepita, che muore per vecchiaia nella vergogna di un cadavere tenuto in vita per permettere al giovane monarca Juan Carlos di assumere il potere senza troppe scosse, nel paese ultraconservatore dominato dall’Opus Dei. E’ il 1975. Da un paio di anni, nell’ultimo possedimento coloniale spagnolo, è attivo un fronte di liberazione nazionale saharawi che si chiama Polisario. Meglio sbarazzarsi alla svelta di un fardello che può diventare pesante. Tanto più che un altro monarca, re Hassan II del Marocco, ha da tempo mire espansionistiche verso sud, attratto in particolare da uno dei giacimenti di fosfati più grandi del mondo e dalla prospettiva di estendere il mare territoriale alle pescosissime coste atlantiche del Sahara occidentale. In cerca di legittimazione per il suo potere autocratico, assai inviso a buona parte della popolazione marocchina, il re Hassan si lancia nella pagliacciata nazionalista della “Marcia Verde”, guidando verso il sud masse di novelli coloni in cerca di terra e di purificazione islamica.
Il giovane Juan Carlos fa una bella vigliaccata alla Ponzio Pilato, forse per necessità: firma la spartizione del Sahara occidentale (che l’ONU voleva indipendente fin dal 1965, per terminare il processo di decolonizzazione in Africa), fra i due vicini prepotenti, il Marocco e la Mauritania, che invadono militarmente il paese sgombrato frettolosamente dagli spagnoli. Un po’ come a Monaco nel ’38, il famoso via libera alle mire di Hilter sulla Cecoslovacchia, un patto disgraziato citato decine di volte a sproposito, negli ultimi anni.
Il Polisario non può certo resistere, gran parte della gente saharawi scappa nel deserto, incalzata dalle truppe e dai bombardieri di fabbricazione americana di Hassan II (il sovrano è un fedele alleato occidentale, uno dei tanti pilastri dell’anticomunismo). Esiliati dalla propria terra, i saharawi trovano rifugio nell’Algeria socialista, rivale del Marocco.
Dai campi profughi installati nella zona di Tindouf, iniziano una guerra fatta di incursioni contro le postazioni militari mauritane e marocchine. I guerriglieri saharawi conoscono il deserto come le loro tasche, e riescono a costringere sulla difensiva due eserciti molto più grandi e forti. La Mauritania dopo alcuni anni decide che il gioco non vale la candela, e si ritira dal conflitto lasciando il campo al solo Marocco. Il Polisario si è sbarazzato di uno dei due nemici. La sua risposta militare mira solo ad imporre una soluzione politica ad Hassan II. Portano avanti la sfida anche e soprattutto a livello diplomatico, rinunciando in partenza ad ogni azione di tipo terroristico, ad una politica di tipo ricattatorio come quella che Arafat conduce nello stesso periodo per difendere i diritti dei palestinesi. Cercano e ottengono il riconoscimento della RASD (la Repubblica proclamata il 27 febbraio 1976 nei campi profughi) da un numero crescente di stati (all’inizio, solo da quelli dell’area socialista). Nel 1982 è la stessa Organizzazione per l’unità africana che ammette la RASD come 51° stato membro. Uno stato che ancora non ha un territorio.
La strana guerra del deserto costa sempre più cara al Marocco, in termini di vite umane e finanziamenti per mantenere 150mila uomini a difendere un fronte indifendibile lungo 2.500 chilometri. A nulla vale la costruzione di un muro di sabbia, né il posizionamento di mine dappertutto. Gli uomini del Polisario non si arrendono, vogliono portare il recalcitrante sovrano marocchino al tavolo delle trattative, e dopo 15 anni di conflitto ci riescono. Nel 1991 viene firmato un cessato il fuoco sotto l’egida dell’ONU, che fissa per l’anno successivo un referendum per l’autodeterminazione. Proprio ciò che volevano i saharawi, perché è meglio contare le teste che spaccarle.
Il Marocco comincia una partita a poker sulla determinazione dei votanti, imbrogliando in continuazione. Passano sette anni di estenuanti trattative: il tempo gioca a favore di Hassan II, che nel frattempo sta “normalizzando” la situazione nel Sahara occidentale, continuando ad esportare immigrati. Ma ecco che gli Stati Uniti scendono in campo, spendendo tutta l’autorità personale dell’ex segretario di stato James Baker: si arriva alla data fatidica, tutto il processo elettorale è fissato nei minimi termini, dalla registrazione agli eventuali ricorsi. Si voterà il 7 dicembre del 1998, senza se e senza ma. Il Marocco, ovviamente, pone ostacoli su ostacoli, cavilli e ricorsi, trucca in continuazione le liste dei partecipanti. Risultato: il referendum non si fa. Ennesimo rinvio. Passano altri sette anni, Hassan II è morto, il figlio Mohamed VI ha fama di giovane istruito e progressista, ha promesso una stagione di grandi riforme democratiche e si è impegnato a risolvere una volta per tutte la questione del Sahara occidentale. Risultato: il Marocco è ancora una democrazia sotto tutela, con una gravissima disuguaglianza sociale. E il monarca illuminato fa sapere oggi al collega spagnolo che i saharawi possono al massimo ottenere una discreta autonomia sotto la sovranità marocchina. Nessuno rinuncia ad una conquista militare, i grandi difensori della democrazia versione George W. Bush lo sanno bene.
I saharawi il loro referendum se lo possono scordare. Che strane idee si sono messi in testa, questi musulmani straccioni del deserto, addirittura di poter decidere il loro futuro con un voto, contro la legge del più forte di un fedelissimo alleato dell’Occidente. Roba da pazzi.



Cesare Sangalli