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Osservatorio africano

Pubblicato su “Galatea”, giugno 2005

E’ mattina in Etiopia

A volte basta prendere un aereo per capire che il mondo sta cambiando. Un tempo le rotte africane erano monopolio quasi esclusivo delle compagnie europee. Si volava con Swissair, Air France, British Airways, Sabena e perfino con l’Alitalia: la drastica riduzione di grandi voli internazionali in partenza da Roma è stato forse il primo vero segnale della decadenza italiana, ormai esplicita in tutti i campi.
Oggi, invece, molte destinazioni dell’Africa dimenticata, da N’Djamena a Bujumbura, da Kigali a Bamako, si raggiungono con la Ethiopian Airlines, via Addis Abeba. Voli puntuali, ottimo servizio, buona organizzazione. L’Etiopia è una nazione politicamente forte, nello scacchiere africano, quella che gli esperti di geopolitica chiamerebbero una “potenza regionale”. Diciamo che rappresenta la gemella povera del Sudafrica, nazione-guida del continente in maniera sempre più evidente. Non è un caso che l’Unione Africana, ex OUA, abbia la sua sede ad Addis Abeba: l’Etiopia è il cuore dell’orgoglio africano, unica nazione capace di resistere all’impatto del colonialismo (ci sarebbe anche la Liberia degli ex schiavi americani, ma non rappresenta un esempio per nessuno).
L’Etiopia è la Storia africana con la maiuscola. I poveri alunni delle scuole coloniali francesi, per fare un esempio, dovevano studiare la storia dei “nostri antenati, i galli”: il passato non esisteva, solo la colonizzazione aveva portato il Tempo, così come l’alfabeto e il Vangelo. In Etiopia no. Gli etiopi hanno trascritto il loro passato e il loro cristianesimo, che è antico come quello romano (il re di Axum Esana scrive della conversione di tutti i suoi sudditi all’imperatore Costantino, considerato un amico fraterno nella fede in Cristo, nel IV secolo). Sono così orgogliosi del loro passato, in Etiopia, che molti quotidiani adottano ancora la data del loro calendario giuliano, che è indietro di sette anni (per cui dovremmo essere oggi nel 1998). Se di mattina chiedete un appuntamento ad Addis Abeba, e vi dicono alle due, vuol dire che vi incontrate alle 20, cioè all’ora seconda della sera, come per gli ebrei di un tempo e per gli antichi romani. E forse nessuna liturgia è così vicina a quella delle prime comunità cristiane come quella etiope (qualcuno infatti parla di paleocristianesimo).
Il passato dell’Etiopia sconfina nel misticismo. I negus, cioè gli imperatori, erano considerati discendenti diretti della Regina di Saba e di Re Salomone. Fu questa grandezza imperiale, a cui si inchinò perfino l’Inghilterra padrona del mondo, dopo che i soldati abissini avevano umiliato gli italiani ad Adua (1896), che impressionò alcuni leader afro-americani in cerca di riscatto dallo schiavismo. Nacque così la religione “rasta”, abbreviativo di “rastafarian”, che era il nome originario di Hailé Selassié (Ras Tafari Mekonnen). I rasta giamaicani, inventori della musica reggae che ha conquistato il mondo, predicavano il ritorno nella loro vera terra promessa, l’Etiopia, sostenendo che gli africani fossero il vero popolo eletto, e che il negus era la loro guida suprema.
E il primo avvenimento etiope in questo storico 2005 è stato proprio il gigantesco concerto in onore di Bob Marley tenuto ad Addis Abeba il 6 febbraio: per milioni di appassionati di musica reggae, la capitale è diventata quel giorno l’ombelico del mondo.
Anche il secondo avvenimento di quest’anno memorabile riporta al passato imperiale dell’Etiopia: con 58 anni di ritardo (cioè dagli accordi di pace del 1947), l’Italia ha finalmente mantenuto la promessa di restituire l’obelisco di Axum, rubato dal fascismo. Paradossalmente, o simbolicamente per qualcuno, il ritorno del monumento è avvenuto con Fini ministro degli esteri. La campagna d’Etiopia (1935), e la susseguente proclamazione dell’Impero, hanno segnato insieme l’apogeo e l’inizio della fine per il regime fascista.
Era un’Italia malata di un nazionalismo aggressivo, che si voleva eroico ma nascondeva il suo lato criminale: è dovuto passare mezzo secolo prima che si riconoscessero gli orrori della guerra di conquista, con l’impiego massiccio dei gas proibiti dalle convenzioni (con una polemica fra Montanelli, allora ufficiale dell’esercito, e lo storico Del Boca, che aveva ragione), la strage dei monaci di Debre Libanos, le repressioni feroci ordinate da Graziani, un criminale di guerra a cui alcuni post fascisti del Lazio vogliono dedicare le piazze, e per ultimo, il furto dei più rappresentativi monumenti abissini. La riconsegna dell’obelisco di Axum era un atto dovuto, e chiude finalmente una ferita storica.
Ma il 2005 potrebbe essere ricordato in Etiopia soprattutto come l’anno di nascita di un’altra democrazia del continente nero, nel suo stato simbolicamente più rappresentativo. Proprio mentre si scrive questo articolo, cominciano ad arrivare i primi risultati ufficiali delle elezioni del 15 maggio, che potrebbero segnare addirittura una vittoria clamorosa per l’opposizione, anche se il governo di Meles Zenawi, al potere dal 1991, aveva già dichiarato di essere stato confermato come maggioranza. Alle prime elezioni veramente libere, ha preso parte oltre il 90 per cento della popolazione, una risposta straordinaria da parte di un popolo fra i più poveri del pianeta, che per tre quarti è formato da agricoltori. Per la prima volta erano presenti 300 osservatori internazionali, e per la prima volta il governo ha dichiarato di essere pronto ad accettare la sconfitta se le elezioni si confermeranno regolari, anche se la tentazione autoritaria resta molto forte. Nonostante denunce di brogli parziali da parte dei partiti di opposizione, tutti concordano che la consultazione si è svolta in modo sostanzialmente corretto e in un ambiente del tutto pacifico. Ennesima dimostrazione, per chi ne avesse ancora bisogno, che la democrazia non è un lusso riservato ai paesi ricchi, e che i popoli africani, forse più di tutti gli altri, chiedono di potersi esprimere.
Se si considera la storia recente del paese, è già quasi un miracolo essere arrivati a questa svolta. L’Etiopia ha vissuto in un medioevo moderno fino al 1974. Il “re dei re” Hailé Selassié, come emergeva in una sconcertante intervista concessa ad Oriana Fallaci, si considerava sovrano assoluto per volere divino, vertice di un sistema feudale in cui la Chiesa etiope fungeva da pilastro, non solo spirituale. Il colpo di stato del colonnello Menghistu instaurò il più rigido e spietato regime comunista che si sia mai visto in terra africana. Un passaggio brutale verso un progresso che non è mai arrivato, ma che ha visto la militarizzazione di un’ intera nazione: alla fine degli anni Settanta, l’Etiopia aveva il più forte esercito del continente, impegnato prima nella guerra con la Somalia (1977) e poi nel proseguimento della lotta infinita contro la piccola Eritrea, annessa come provincia nel 1962 e da allora in lotta per l’indipendenza. Sono stati i guerriglieri eritrei, con l’appoggio dei loro “cugini” del Tigray, a seppellire nella disfatta militare il regime di Menghistu, definito il “Robespierre del Corno d’Africa”. Una lotta impari, in cui Davide ha sconfitto Golia (vedi “Galatea”, ottobre 2000), anche perché Menghistu passava da un’epurazione all’altra dei suoi ufficiali, e alla fine era odiato da tutti.
Zenawi, attuale primo ministro, era il leader del Fronte di liberazione del Tigray alleato con gli eritrei guidati da Isaias Afeworki. Il fatto di essere un tigrino del nord, membro di un’etnia costantemente emarginata in Etiopia, ha sempre impedito una sua vera legittimazione come capo della nazione. Questo è uno dei fattori che hanno portato all’assurda, crudele guerra in tre riprese contro l’Eritrea. Cavalcare il nazionalismo contro il nemico è un ottimo strumento per rimanere al potere. Il discorso vale specularmene per Afeworki, che ha continuato ad esasperare il suo autoritarismo e la militarizzazione dell’Eritrea, una nazione che poteva diventare un modello di virtù africana e che invece è ormai una dittatura ad alta propensione bellica, quando avrebbe un disperato bisogno di pace. Nei cinque anni trascorsi dall’armistizio, Zenawi, confortato dalla parziale vittoria nel terzo conflitto con l’Eritrea in tre anni (dopo una sconfitta nel ’98 e un “pareggio” nel ’99), ha invece optato per una lenta ma costante apertura democratica, che è sfociata appunto nelle elezioni di questo maggio che si spera radioso. Alleato degli Stati Uniti fin dai primi passi del governo, Zenawi ha continuato a rifornirsi di armamenti nei paesi ex sovietici, mantenendo i vecchi canali di un tempo. Non è facile immaginare un politico del genere, abituato a tutte le trappole del potere, che accetta tranquillamente di passare all’opposizione. Il cammino della democrazia è sicuramente ancora lungo e pieno di insidie, e il fatto che per tre mesi sono state vietate le manifestazioni nella capitale non è certo incoraggiante. Ma quando la gente si mobilita in modo così eclatante, tornare indietro è quasi impossibile. La libertà è in marcia in tutto il continente, e in questo 2005 così povero di notizie positive possiamo dire che l’Etiopia vede l’alba di un giorno nuovo.

Cesare Sangalli